December 29, 2003Le Parole sotto il veloIran. testate chuse, giornalisti e scrittori arrestati. parla Emad-din Baghi( L’edificio ospitava Fath, uno dei quotidiani indipendenti chiusi dalla magistratura iraniana nei primi mesi del 2000. Tutto, dai blocchi di carta intestata alla deserta sala delle riunioni di redazione, rievoca quel giornale, dice con nostalgia Emad-din Baghi: lui ne era il direttore. Arrestato alla fine di marzo del 2000, è stato scarcerato lo scorso febbraio, dopo tre anni. Ma si sente in «libertà provvisoria», un po’ come tutti i giornalisti e scrittori in Iran. Sarà che i partiti politici hanno vita fragile, statuti legali incerti, mancano di una struttura organizzativa: sta di fatto che critica politica e opposizione, in Iran, si esercitano soprattutto dalle colonne dei giornali. Però 90 testate sono state chiuse e una cinquantina di giornalisti e scrittori sono stati arrestati negli ultimi tre anni – tre nell’ultimo mese e mezzo. La stampa è il principale bersaglio della controffensiva conservatrice alla timida democratizzazione avviata dal presidente Mohammad Khatami cinque anni fa. Proprio nel ’97 è cominciato il giornalismo indipendente , quando un’inattesa vittoria elettorale ha portato alla presidenza della repubblica questo religioso convinto di poter riformare dall’interno il sistema nato dalla rivoluzione islamica e basato sul potere assoluto della Guida suprema, massima autorità religiosa e insieme civile dell’Iran. Spiragli d’apertura nel sistema erano già apparsi, ma tutto è stato accelerato dal «presidente che sorride» (una novità, nell’arcigno panorama degli ayatollah): è mutato il clima politico e sociale. Cambiamenti visibili nei vestiti delle donne, invece del chador pantaloni e spolverini sopra al ginocchio; blu e anche colori vivaci al posto del nero; i capelli sporgenti dai foulard; sotto i grembiuloni delle studentesse, i jeans … segnali importanti, perché proprio l’obbligo di coprire corpi e teste delle donne è il simbolo fondante del sistema di potere in Iran. Le esecuzioni di massa però appartenevano a un’epoca emergenziale. Il caso degli scrittori e attivisti laici uccisi in casa o per strada – oltre 80 nella seconda metà degli anni ’90 – era invece un’intimidazione mirata contro il dissenso. Nel ‘98 a Tehran il funerale di due attivsti uccisi, Darioush e Parvaneh Foruhar, si trasformò in una manifestazione di piazza. È allora che Baghi e un altro giornalista oggi dietro le sbarre, Akbar Ganji, hanno cominciato a scrivere articoli di indagine. Poco a poco hanno tirato in causa personaggi intoccabili, religiosi altolocati. I mandanti, hanno scritto, erano nel Ministero dell’informazione. Nel nuovo clima di apertura, ogni nuova denuncia faceva scalpore. Sotto pressione, il ministro dell’informazione ha dovuto fare pubbliche scuse e ammettere la responsabilità della polizia segreta. Accusò «elementi deviati», beninteso: ma anche così, era la prima volta nella storia dell’Iran che la polizia segreta era costretta a una simile ammissione. IL PROTESTANTESIMO ISLAMICO Oggi la critica di questi intellettuali islamici è radicale. Dal carcere, Akbar Ganji ha diffuso di recente una lettera (circola su internet), un «manifesto della repubblica», dove sostiene che il clero va espulso dal governo. Altrettanto radicale Hashemi Aghajari, veterano della guerra Iran-Iraq, storico all’Università di Hamedan e membro dell’Organizzazione dei Mojaheddin della rivoluzione islamica (una sorta di «sinistra islamica» che preconizza un’autorità sottomessa alla costituzione e non viceversa): lo scorso novembre ha parlato di «protestantesimo islamico», accusa il clero sciita di aver formato una classe dirigente che usa la religione per perpetuare il proprio potere terreno e bloccare l’evoluzione della società, e auspica la separazione della religione dalla politica. Un discorso che gli è costato la condanna a morte, sospesa dopo la protesta degli studenti di Tehran e altre città. Pochi giorni fa, alla prima udienza del nuovo processo per «blasfemia», Aghajari ha rifiutato di discolparsi «finché il tribunale non sarà aperto al pubblico e alla stampa». Critiche simili sono formulate da intellettuali di stampo più chiaramente laico – come lo scrittore e traduttore Alireza Jabbari, scomparso tre mesi fa e «ricomparso» in carcere (vedi il manifesto, 6 maggio). O da molti studenti: secondo stime ufficiose, circa 300 oggi sono in galera, senza chiare accuse, spesso in carceri non-ufficiali gestiti da corpi separati dello stato. Baghi descrive un potere arroccato: le riforme sono bloccate, la magistratura continua ad arrestare attivisti. E però, fa notare, «il settore totalitario prende sul serio la minaccia americana»: dopo la caduta di Baghdad in effetti l’Iran è accerchiato dalle truppe Usa. La pressione su Tehran aumenta: ne sono il segno le accuse di interferire in Iraq, o di violare i trattati di non proliferazione nucleare. Nell’establishment iraniano è aperto un dibattito sulle relazioni con gli Stati uniti: parte dei conservatori è disposta a trattare con Washington, «dicono che non bisogna dare scuse agli Stati uniti per un altro regime change americano, stile Baghdad». Molti riformisti sperano che tutto questo spinga il potere a compromessi, centinaia di intellettuali e deputati in queste settimane hanno firmato appelli a rafforzare le riforme democratiche. Baghi è convinto però che il potere non verrà facilmente a patti. «Il gruppo più oltranzista pensa che ogni flessibilità sarà vista come un cedimento, e sanno che se il potere comincia a cedere è finito». click here
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